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Carl Schmitt fra “terra e mare” alla ricerca di un “nomos” per la Terra

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Carl Schmitt. Plaidoyer pour la multipolarité, 1943.png

Carl Schmitt fra “terra e mare” alla ricerca di un “nomos” per la Terra

da Giovanni Balducci
Ex: http://www.barbadillo.it

Nella postfazione a Terra e mare di Carl Schmitt, dal titolo “Il potere degli elementi”, il grande quanto sfortunato filosofo e storico della filosofia Franco Volpi (scomparso prematuramente nel 2009 a soli 57 anni in un banale incidente in bici), facendo fede sul resoconto di un discepolo del grande giurista tedesco, ci presenta la suggestiva immagine di uno Schmitt che nel suo eremo di Plettenberg, in piena seconda guerra mondiale, si interroga circa le sorti del mondo e dell’Europa in particolare, sublimando la sua nostalgia e il proprio isolamento accostando la sua sorte a quella di eminenti predecessori o di mitiche figure di valenti outsider, fra cui Niccolò Machiavelli, che dopo aver insegnato al mondo gli arcana imperii ebbe a terminare i suoi giorni nel suo ritiro di San Casciano e il letterario Benito Cereno, il capitano “bianco”, uscito dalla penna di Herman Melville, ammutinato da schiavi “negri”.

Il grosso problema che a quel tempo ossessionava Schmitt era riuscire a dirimere il conflitto, da lui individuato, fra le due concezioni del mondo cattolica ed ebraica, che caratterizzava la civiltà occidentale. Schimitt, che stranamente – stando al racconto – ha appeso alla parete del suo studio un ritratto del politico ebreo Benjamin Disraeli, quando nelle case di ogni buon tedesco anni ’40 l’unico quadro a campeggiare era quello del Führer, non fa mistero di ritenere come interpretazione vincente la visione ebraica della storia, intesa come progresso dell’umanità verso un “futuro regno di pace”, o se si vuole, verso la “Nuova Gerusalemme”, lontana sì nel tempo, ma situata nell’aldiquà, e dunque ben più concreta di quell’ipotetico aldilà cui anelava la teologia cristiano-cattolica.

Per Schmitt, tuttavia, il cristianesimo può essere interpretato come una sorta di divulgazione “essoterica” fatta ai gentili della vera dottrina giudaica. In effetti, nella stessa interpretazione della Genesi, come espressa nello Zohar, suo commentario cabbalistico, si afferma che compito di ogni pio ebreo e di ogni uomo di retta volontà tra i gentili sarebbe quello di operare per la realizzazione del «tikkun» , la riparazione dell’anima umana (tikkun ha-nefesh) e di rimando del mondo (tikkun ha olàm), riportando la “presenza divina” (Shekhinah), o meglio sarebbe dire, rendendo la stessa presente, nel dominio degli uomini, riscattando in tal modo il peccato di Adamo, che osò separare sé stesso dalla Totalità universale e divina. Lo stesso Disraeli, del resto appare a Schimitt come «un iniziato, un saggio di Sion»: è quanto testualmente scrive nell’edizione di Terra e Mare del 1942; frase saggiamente espunta a guerra finita.

Un altro tema forte delle cogitazioni del grande giurista tedesco è la lotta tra le categorie giuridico-politiche di «Staat» (“Stato”), quella, per intenderci, dello stato “Leviatano” introdotta da Hobbes, e quella, verso cui Schmitt è più propenso, ritenendola superiore sia allo «Staat» di Hobbes sia all’ideologia völkisch che animava l’azione di Hitler e del nazionalsocialismo, di «Großraum» (“grande spazio terrestre”, o anche “ spazio imperiale”).

Questa variante era preferita da Schimitt alla stessa Lega delle Nazioni, incapace di dirimere le grandi questioni europee ed internazionali e di dare nuova legge e nuovo ordine al mondo, secondo il famoso concetto schmittiano di «nomos della terra». Essa inoltre si mostrava in tutta la sua debolezza al confronto con gli Stati Uniti d’America, che Schmitt vedeva come il vero nuovo “arbitro della terra”.

Egli, tuttavia, pur ammirando la dottrina Monroe, che secondo la sua visione delle cose aveva consentito agli Stati Uniti di assurgere al primato internazionale, costituendosi come un mix di indipendentismo e sovranità (isolazionismo?) e interventismo mirato in spazi extranazionali, riteneva che gli Stati Uniti, pur non essendo, a differenza dell’Inghilterra, un fattore di “dissolvimento”, non potevano rappresentare quella che per lui doveva essere la figura del katèchon, capace di frenare il processo dissolutivo dell’Ecumene occidentale, e per due gravi motivi: l’incapacità dimostrata nel recidere il cordone ombelicale dalla madrepatria britannica e al contempo l’ideologia accarezzata di un “nuovo secolo americano”.

Ecco che proprio questo farebbe declassare agli occhi di Schmitt gli Stati Uniti, da possibile katèchon, al ruolo addirittura di “ acceleratore involontario” della definitiva dissoluzione della società occidentale.

La concezione marittima del potere, come portata avanti dagli inglesi, per Schmitt, infatti, aveva avuto un ruolo determinante nella fine della concezione continentale, dunque terrestre, dello Ius publicum Europaeum e dell’ordine tradizionale del Vecchio continente, tendendo essa a radicalizzare i conflitti fino a promuovere l’ideologia di una “guerra totale” , che più non si limita al mero scontro fra eserciti belligeranti, ma porta alla “criminalizzazione” di interi popoli, e addirittura degli stati che commerciano o in qualche modo sono accusati di sostenere l’economia del nemico.

Schmitt paragona l’Inghilterra a una “nave” – a una “nave pirata” ad esser precisi – del resto, gran parte del suo impero è stato costruito grazie ad azioni che non tenevano in nessun conto alcuna legge e il Diritto delle genti. Veri e propri atti di pirateria di schiumatori e buccaneers, come quelli di Francis Drake, poi divenuto Sir, hanno rappresentato il suo quasi consueto modus operandi.

Era pressappoco quanto si stava già profilando sullo scenario di guerra cui Schmitt sta assistendo. Siamo per la precisione nell’anno di “grazia” 1942, quando, sbarcando in Irlanda, giunge in Europa il primo contingente militare statunitense, e la guerra dopo aver attraversato gli elementi terra e aria, si appresta ad interessare l’elemento acqua, facendosi poi addirittura sottomarina.

@barbadilloit

Di Giovanni Balducci

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